sabato 14 dicembre 2013

Passeggiate.

La neve se ne frega, cantava qualcuno in una delle ballate che aveva ascoltato quand'era bambina, uno dei tanti circhi itineranti di Phoenix.
Se ne frega del naso a pezzi di Kane Vyntra - un mezzo bacio e una testata.
Se ne frega dell'assordante silenzio da Jesse Rosales - sotto le bombe, dentro la Guerra.
Se ne frega di lei che ha sbagliato - ancora e ancora - e dello sguardo nero del padrone, come pece bollente fin dentro la gola. Fa un male fottuto - forse rompermi ancora una caviglia avrebbe fatto meno male del silenzio.
Ha pulito cessi di Hall Point per una settimana in abitini succinti, con la caviglia a pezzi, e ha incontrato strane persone. Buffe persone.
La neve se ne frega di Zoe Morrigan e la sua gentilezza, il suo sorriso, il suo mettersi in mezzo per salvarla - la donna del padrone.
Le giornate trascorrono lente, pastose, come i fiocchi che scricchiolano sotto gli anfibi in quella passeggiata eterna. Uno squallido affittacamere a Oak Town dove l'aria è diventata irrespirabile.
Katerina la guarda, la osserva come se dovesse proteggerla da tutto e da tutti - e con quegli occhi, gli stessi occhi di Dragan, non lo può proprio fare.
Non si abituerà mai all'affetto disinteressato - « Abituatici a gente che vuole proteggerti. »
« Perché sei così umana con me? »
L'unico modo che aveva trovato per far tacere Vyntra era stato quello di spaccargli il naso, con rabbia - selvatico istinto, stai zitto stai zitto.
Saren le ha regalato un gatto nero - Tac -, Saren che vuole che lei si prenda cura di qualcuno.
Qualcuno che sia solo mio.
Nessuno, dopo Tulio, ha potuto fregiarsi di questo aggettivo. A parte il padrone.
« Promettimi che torneresti da me, sempre. »
« Prometto. Se il 'Verse intero ci dividesse, ammazzerei chiunque osasse mettersi sulla mia strada pur di tornare da te. »
Certo.
Jordan Fox è fedele, Jordan Fox obbedisce. Sempre.
Ciò che ha da offrire, ogni giorno se lo strapperebbe dal petto per gettarlo, sanguinante, in dono ai piedi di chi lo richiede.
Ma a volte vorrebbe tanto essere come la neve che le sta imbiancando le spalle, imperterrita, e fregarsene un po' anche lei.

mercoledì 27 novembre 2013

Random thoughts.


« Io non sapevo cosa mi stesse succedendo, e all'improvviso mi resi conto che si trattava solo della Bloom che stavamo fumando; Tulio ne aveva comprata un po' a Las Rosas. Mi faceva credere che tutto stesse per succedere: il momento in cui si capisce che tutto, tutto è deciso per sempre. »


mercoledì 13 novembre 2013

In vena.

Richleaf, Maracay - Tartagal, 2508

Il cucchiaio è colmo, fino all'orlo - bollente la fiamma sotto il metallo.

« Muoviti chica, muoviti che non ce la faccio più. »

Le mani tremano - cazzo non cadere ti prego che devo ricominciare -, il fiato è grosso e le pupille minuscole. Spilli neri in un mare verde, torbido e umido, almeno il doppio rispetto alle labbra, arse dalla sete - dalla fame di droga.
La switch si scioglie in un cucchiaio da minestra; ciò che viene dopo è automatismo consumato, ossessivo e pulito. Stringere con i denti una stringa al braccio, stipare ciò che si è sciolto in una siringa già usata un paio di volte, stringere il pugno, picchiettare la pelle per trovare la vena - un fiume blu scuro su carta velina bianca.
Tulio è sempre stato un egoista del cazzo.

« Lasciamene un po', stronzo. »

Lui ride, se ne spara metà dose senza neanche guardarla, gli occhi chiari aggrappati all'ago affondato nell'incavo del gomito - ennesimo buco in un cimitero di perdizione.

« Vacci piano Jor, che non ci sei abituata. »
« Ma mi serve. » ansima, un respiro spezzato. « Ne ho bisogno. »

E si odia, in quel momento. In quella catapecchia che definiscono casa, una delle tante casette brulicanti nei vicoli di Tartagal; si odia su quel pavimento lurido, sprofondata in una sedia di paglia sfondata, gambe larghe e mani intrecciate sulla bocca. Il ginocchio destro non sembra riuscire a stare fermo, neanche un secondo, e il tallone scalzo rimbalza su e giù sulla terra battuta.
Odia il riflesso di se stessa in quel fottuto cucchiaio da minestra - arruffata, magra, selvatica. Così diversa dall'adolescente scontrosa che correva sulla spiaggia di Thyatira per cercare conchiglie, prima che un gruppo di ragazzini - la cattiveria dei bambini - la facesse scappare.

« Fattela, cariña. »

La voce di Tulio è confusa, pastosa. Bollente quanto la sua mano che le afferra il polso per piazzarle in mano la siringa.

« Piano, entra piano. Altrimenti sballi troppo. »

Jordan non l'ascolta più, non appena l'ago morde la pelle - stringi picchietta trova la vena.
Tutto quello che stava pensando prima - le conchiglie, sua madre, la sabbia sotto i piedi - sparisce nel premere lo stantuffo e iniettarsi la switch dritta in vena, senza esitare - mi serve, ne ho bisogno.
Tutti i sogni che aveva, che prima sembravano tanto grigi e spenti, ritornano brillanti e luminosi nel sudore freddo che comincia ad imperlarle la fronte. Guarda Tulio e le sembra di nuovo l'affascinate giovanotto che l'ha rimorchiata in un bar, non il tossico violento che ha cominciato ad accennarle l'ipotesi di far marchette pur di avere soldi. Guarda le pareti della catapecchia e tornano colorate, senza crepe, tutte intatte.
Sorride persa, euforica - strafatta.

« Scopami. »

E il ragazzo seduto sul letto davanti a lei - perso almeno quanto lei - non se lo fa ripetere.

~
Richleaf, Maracay - Las Rosas, 2515

Jesse le ha strappato la droga di mano.
L'ha guardato farsi una dose la notte prima, in un silenzio sbronzo - spaventato. Ci ha letto, in quegli occhi neri, la stessa silenziosa disperazione - autodistruzione - che aveva Tulio.
Che aveva lei.
Lo sguardo che le ha spinto addosso aveva la selvatica rabbia di un lupo con qualcuno del suo branco - tocca le mie cose di nuovo e finisci male.
Lei ha agitato la coda avanti e indietro, diffidente, le orecchie premute sul capo - sottomessa, 'ché la sua natura servile fatica a farsi da parte.
Se n'è andata senza più voltarsi indietro, da quel bordello - Casa Cruz, Las Rosas - in cui è andata a ripescarlo - passerà dei guai, per ciò che ha origliato e non doveva dire.

« Non è salvando lui che salverai Tulio, Jay. »

La voce del padrone le rotola tra un pensiero e l'altro, ammassata assieme ad altre anime nello spazioporto di Richleaf. Voli cancellati, navi bloccate, controlli e perquisizioni - niente stranieri, niente passaggi, nessuno lascia il Pianeta.
Il conflitto tra Confederati e Alleati sta dilaniando Polaris, pezzo dopo pezzo - come i tamburi a guerra dentro di lei.
Pagherà - o minaccerà - qualcuno per imbarcarsi sulla prima nave per Bullfinch, per tornare alla vita reale e alla missione - alla Famiglia.
E' salendo l'airlock di un Wyoming arrugginito che nuovamente la voce di Joe Black la fa giungere ad una conclusione che vorrebbe non aver mai compreso: che forse non sta cercando di salvare Tulio. Forse - sottovoce - sta cercando quella Jordan di diciotto anni che aveva smarrito se stessa nella brulicante Maracay.
Forse - bisbigliando - sta cercando di salvarsi da sola.
Come se il passato si potesse cancellare.

lunedì 28 ottobre 2013

Instabile.

Quattordici. Ne ha sentite quattordici - tacche nella carne, sfregi nella pelle - di cicatrici sull'ampia schiena di Jesse Rosales.

« Dammi la mano. Toccami la schiena. »

Gli ha passato le dita, forti e affusolate, sopra la stoffa della camicia. Le ha contate poi, sovrappensiero, levandogli i vestiti insanguinati, uno alla volta. Gli ha letto in quello sguardo cupo la stessa, disperata ferocia che s'agita in fondo ai suoi occhi verdi.Lei ne ha qualcuna meno - ghirigori di cattiveria e di potere -, come le ha sussurrato la sua voce bassa, di gola, mentre la spogliava. Non hanno nulla da nascondere, sotto il getto bollente della doccia. Si sono frugati a lungo negli occhi, cercando tra le ciglia l'uno dell'altra un passato e una sofferenza seppelliti laggiù, dove non fa più male ma rimane una ferita aperta - sale e limone il parlare di ricordi.

« Sarà il nostro segreto, sorella. »

Mormorato tra le ciocche biondo miele, una mano affondata nella nuca - quasi avesse paura che lei fuggisse, da sotto le sue dita. Un passato che lui per primo - Cordero - ha voluto seppellire talmente a fondo dentro di sé da non riuscire più a raccontarlo a nessuno, senza quel brulicare cupo in fondo agli occhi scuri.
Jesse Rosales ha morbidi boccoli neri, in cui passare le dita fino ad annodarglieli ma che sotto l'acqua scompaiono, diventando spigolosi come il suo carattere selvatico. Lui ha passato istanti - eterni, brevissimi, troppi - a lavarle i capelli biondi dal sangue che lui stesso le aveva lasciato addosso, interessato a sbrogliare nodi arruffati piuttosto che fare qualsiasi altra cosa. E il suo respiro, sul cuscino di fianco al suo, è profondo e ritmico - un sonno senza sogni o incubi.


~

Joe Black ha le mani forti - spietatamente dolci quando passava lui le mani sulle cicatrici - quando le afferra il collo e la schianta al muro. Furioso, deluso - tutto per colpa sua. Ha perso Chris Parker, era stata incaricata della sua tutela e l'ha smarrita, su Hall Point.
Una farfalla sotto vetro, fuggita agli spilli di una crocifissione - la bella Corona - che è scappata di nuovo - avrebbe dovuto stringerle più forte, quelle dita.
Il padrone urla, sbraita, e lei riesce solo a pensare - terrorizzata, senza fiato - a quanto assomigli al suo primo padrone, Ebwar. Lo stesso che l'ha legata nuda fuori dalla sua casa a Flame, su St. Andrew« se riesci a sopravvivere e liberarti, hai il permesso di fuggire. »
Non ha implorato di poter rientrare, preferendo spezzarsi - morire, forse, addormentarsi nella neve - piuttosto che piegarsi la schiena. E il padrone l'ha ricostruita da lì, pezzo dopo pezzo, smarrendo qualcosa lungo la strada.
La sua anima, il suo equilibrio. La Jordan Fox dei vicoletti di Tartagal.
Il bicchiere che Jesse ha frantumato sulla nuca di Dragan - 
« Non la toccare. » - le ha fatto mancare un battito; lo scagliarsi del padrone contro di lui - « Assomigli un po' a Tulio, sai. » - le ha mandato il sangue al cervello.
Non ha potuto scegliere una parte a cui essere leale, non divorata da quell'istinto che le urlava solo di non lasciar morire un altro senza poter far nulla. Di non essere responsabile per qualcuno, di non permettere a Jesse di opporsi al suo padrone.
Gli avrebbe sparato per farlo stare zitto e abbracciato stretto, fino a mozzargli il respiro - non sa scegliere in che ordine.


Jordan Fox si rende conto - prendendo a pugni il muro fuori dalla Roadhouse - che la postilla in caratteri minuscoli vergata sul fondo del suo contratto - livido viola sotto il collare d'acciaio - diceva la verità.
Instabile.
Che quando tocca scegliere una parte, una persona, tutto il corpo urla di obbedire al padrone. Di rispettare il padrone - di temere il padrone. Ma che una sola, fottutissima persona - 
« Andrà tutto bene. » - è capace di risvegliare qualcosa, quel qualcosa con cui combatte da quando le hanno agganciato il collare al collo e le hanno ordinato "Sii schiava".
Quel fuoco che anche Joe Black ha imparato a conoscere fin troppo bene - le sue mani sulla schiena e la sua bocca dappertutto.
« Sei instabile, Jordan Fox. »

E nemmeno lui sa, di preciso, quanto ha ragione.

venerdì 18 ottobre 2013

Soffitti e pensieri.

Il pavimento della stazione degli autobus di Maracay, nel quartiere di Tartagal, era come tutti gli altri pavimenti di qualsiasi stazione in qualsiasi altro Pianeta: coperto di sputi, bucce, passi. Puzzava di piscio e di tristezza e neanche la sacca scalcagnata che Jordan stava usando come cuscino serviva a qualcosa.
Era scalza e senza soldi - un bagaglio di malinconia e rabbia -, gli ultimi li avevi spesi per pagarsi la corsa dallo Spazioporto fino alla grande e brulicante metropoli. Le scarpe le aveva smarrite da qualche, nella stiva della nave mercantile a cui aveva pagato un passaggio - sola andata senza guardarsi indietro -, e qualche membro dell'equipaggio aveva deciso che un paio di stivali bucati sul tallone gli andavano a genio.
La città l'aveva risucchiata nel suo grembo non appena era scesa dal mezzo, investita dall'umanità frenetica e affamata una megalopoli costruita con lo stesso affanno in cui vivono i suoi abitanti - randagi criminali e puttane. Santoni e politici corrotti. Maracay, anche vista da sotto in su a distruggersi la schiena su un pavimento lercio, era rissosa, selvaggia e libera, libertà di ogni genere e senza distinzioni.

Proprio quello che stava disperatamente cercando lei.
Non era esattamente quello, tuttavia, il punto di partenza che si era imposta; era stato facile, fin troppo, arrivare lì dove aveva sognato di scappare, minacciando più volte sua madre di prendere la porta e non tornare più. Aveva ingoiato paura e pensieri per mettere il piedi fuori dalla dannata porta, e adesso se ne stava lì: a fissare il soffitto alto e screpolato, le orecchie ovattate dai passi dei viaggiatori che rimbombano sul pavimento, e a chiedersi per quindici, assurdi ed eterni secondi chi diavolo fosse lei - una sconosciuta alla stazione.
Qualcosa le si era già iniettato sotto pelle, deliziosamente crudele, e non ne voleva sapere di venir via: un sottile senso di inquietudine, recalcitrante, che le urlava di alzarsi da quel pavimento e immergersi nei tortuosi vicoletti della notte maraqeña, viva e bestiale come le luci soffuse che punteggiavano le favelas promettevano.
Voltò il capo, strofinando i lunghi capelli biondi - arruffati e annodati - sulla stoffa della sacca, per poter mettere a fuoco l'uscita, venti passi più in là. C'era un mondo, là fuori - la pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno -, che aspettava solamente di essere assaggiato.

Senza soldi senza progetti. Senza pensieri.
Jordan Fox si alzò da quel pavimento, una notte di tanti anni fa, e mosse i passi nella buia e tiepida tenebra di Tartagal; si era scelta la sua personalissima discesa nella Città Dolente, chiudendo gli occhi e prendendo un respiro profondo.
E non pensò, neanche per un istante, che alla fine di quell'arcobaleno che i suoi sogni di sedicenne scapestrata avevano fantasticato, ci fosse tutt'altro che dell'oro.