lunedì 28 ottobre 2013

Instabile.

Quattordici. Ne ha sentite quattordici - tacche nella carne, sfregi nella pelle - di cicatrici sull'ampia schiena di Jesse Rosales.

« Dammi la mano. Toccami la schiena. »

Gli ha passato le dita, forti e affusolate, sopra la stoffa della camicia. Le ha contate poi, sovrappensiero, levandogli i vestiti insanguinati, uno alla volta. Gli ha letto in quello sguardo cupo la stessa, disperata ferocia che s'agita in fondo ai suoi occhi verdi.Lei ne ha qualcuna meno - ghirigori di cattiveria e di potere -, come le ha sussurrato la sua voce bassa, di gola, mentre la spogliava. Non hanno nulla da nascondere, sotto il getto bollente della doccia. Si sono frugati a lungo negli occhi, cercando tra le ciglia l'uno dell'altra un passato e una sofferenza seppelliti laggiù, dove non fa più male ma rimane una ferita aperta - sale e limone il parlare di ricordi.

« Sarà il nostro segreto, sorella. »

Mormorato tra le ciocche biondo miele, una mano affondata nella nuca - quasi avesse paura che lei fuggisse, da sotto le sue dita. Un passato che lui per primo - Cordero - ha voluto seppellire talmente a fondo dentro di sé da non riuscire più a raccontarlo a nessuno, senza quel brulicare cupo in fondo agli occhi scuri.
Jesse Rosales ha morbidi boccoli neri, in cui passare le dita fino ad annodarglieli ma che sotto l'acqua scompaiono, diventando spigolosi come il suo carattere selvatico. Lui ha passato istanti - eterni, brevissimi, troppi - a lavarle i capelli biondi dal sangue che lui stesso le aveva lasciato addosso, interessato a sbrogliare nodi arruffati piuttosto che fare qualsiasi altra cosa. E il suo respiro, sul cuscino di fianco al suo, è profondo e ritmico - un sonno senza sogni o incubi.


~

Joe Black ha le mani forti - spietatamente dolci quando passava lui le mani sulle cicatrici - quando le afferra il collo e la schianta al muro. Furioso, deluso - tutto per colpa sua. Ha perso Chris Parker, era stata incaricata della sua tutela e l'ha smarrita, su Hall Point.
Una farfalla sotto vetro, fuggita agli spilli di una crocifissione - la bella Corona - che è scappata di nuovo - avrebbe dovuto stringerle più forte, quelle dita.
Il padrone urla, sbraita, e lei riesce solo a pensare - terrorizzata, senza fiato - a quanto assomigli al suo primo padrone, Ebwar. Lo stesso che l'ha legata nuda fuori dalla sua casa a Flame, su St. Andrew« se riesci a sopravvivere e liberarti, hai il permesso di fuggire. »
Non ha implorato di poter rientrare, preferendo spezzarsi - morire, forse, addormentarsi nella neve - piuttosto che piegarsi la schiena. E il padrone l'ha ricostruita da lì, pezzo dopo pezzo, smarrendo qualcosa lungo la strada.
La sua anima, il suo equilibrio. La Jordan Fox dei vicoletti di Tartagal.
Il bicchiere che Jesse ha frantumato sulla nuca di Dragan - 
« Non la toccare. » - le ha fatto mancare un battito; lo scagliarsi del padrone contro di lui - « Assomigli un po' a Tulio, sai. » - le ha mandato il sangue al cervello.
Non ha potuto scegliere una parte a cui essere leale, non divorata da quell'istinto che le urlava solo di non lasciar morire un altro senza poter far nulla. Di non essere responsabile per qualcuno, di non permettere a Jesse di opporsi al suo padrone.
Gli avrebbe sparato per farlo stare zitto e abbracciato stretto, fino a mozzargli il respiro - non sa scegliere in che ordine.


Jordan Fox si rende conto - prendendo a pugni il muro fuori dalla Roadhouse - che la postilla in caratteri minuscoli vergata sul fondo del suo contratto - livido viola sotto il collare d'acciaio - diceva la verità.
Instabile.
Che quando tocca scegliere una parte, una persona, tutto il corpo urla di obbedire al padrone. Di rispettare il padrone - di temere il padrone. Ma che una sola, fottutissima persona - 
« Andrà tutto bene. » - è capace di risvegliare qualcosa, quel qualcosa con cui combatte da quando le hanno agganciato il collare al collo e le hanno ordinato "Sii schiava".
Quel fuoco che anche Joe Black ha imparato a conoscere fin troppo bene - le sue mani sulla schiena e la sua bocca dappertutto.
« Sei instabile, Jordan Fox. »

E nemmeno lui sa, di preciso, quanto ha ragione.

venerdì 18 ottobre 2013

Soffitti e pensieri.

Il pavimento della stazione degli autobus di Maracay, nel quartiere di Tartagal, era come tutti gli altri pavimenti di qualsiasi stazione in qualsiasi altro Pianeta: coperto di sputi, bucce, passi. Puzzava di piscio e di tristezza e neanche la sacca scalcagnata che Jordan stava usando come cuscino serviva a qualcosa.
Era scalza e senza soldi - un bagaglio di malinconia e rabbia -, gli ultimi li avevi spesi per pagarsi la corsa dallo Spazioporto fino alla grande e brulicante metropoli. Le scarpe le aveva smarrite da qualche, nella stiva della nave mercantile a cui aveva pagato un passaggio - sola andata senza guardarsi indietro -, e qualche membro dell'equipaggio aveva deciso che un paio di stivali bucati sul tallone gli andavano a genio.
La città l'aveva risucchiata nel suo grembo non appena era scesa dal mezzo, investita dall'umanità frenetica e affamata una megalopoli costruita con lo stesso affanno in cui vivono i suoi abitanti - randagi criminali e puttane. Santoni e politici corrotti. Maracay, anche vista da sotto in su a distruggersi la schiena su un pavimento lercio, era rissosa, selvaggia e libera, libertà di ogni genere e senza distinzioni.

Proprio quello che stava disperatamente cercando lei.
Non era esattamente quello, tuttavia, il punto di partenza che si era imposta; era stato facile, fin troppo, arrivare lì dove aveva sognato di scappare, minacciando più volte sua madre di prendere la porta e non tornare più. Aveva ingoiato paura e pensieri per mettere il piedi fuori dalla dannata porta, e adesso se ne stava lì: a fissare il soffitto alto e screpolato, le orecchie ovattate dai passi dei viaggiatori che rimbombano sul pavimento, e a chiedersi per quindici, assurdi ed eterni secondi chi diavolo fosse lei - una sconosciuta alla stazione.
Qualcosa le si era già iniettato sotto pelle, deliziosamente crudele, e non ne voleva sapere di venir via: un sottile senso di inquietudine, recalcitrante, che le urlava di alzarsi da quel pavimento e immergersi nei tortuosi vicoletti della notte maraqeña, viva e bestiale come le luci soffuse che punteggiavano le favelas promettevano.
Voltò il capo, strofinando i lunghi capelli biondi - arruffati e annodati - sulla stoffa della sacca, per poter mettere a fuoco l'uscita, venti passi più in là. C'era un mondo, là fuori - la pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno -, che aspettava solamente di essere assaggiato.

Senza soldi senza progetti. Senza pensieri.
Jordan Fox si alzò da quel pavimento, una notte di tanti anni fa, e mosse i passi nella buia e tiepida tenebra di Tartagal; si era scelta la sua personalissima discesa nella Città Dolente, chiudendo gli occhi e prendendo un respiro profondo.
E non pensò, neanche per un istante, che alla fine di quell'arcobaleno che i suoi sogni di sedicenne scapestrata avevano fantasticato, ci fosse tutt'altro che dell'oro.