venerdì 18 ottobre 2013

Soffitti e pensieri.

Il pavimento della stazione degli autobus di Maracay, nel quartiere di Tartagal, era come tutti gli altri pavimenti di qualsiasi stazione in qualsiasi altro Pianeta: coperto di sputi, bucce, passi. Puzzava di piscio e di tristezza e neanche la sacca scalcagnata che Jordan stava usando come cuscino serviva a qualcosa.
Era scalza e senza soldi - un bagaglio di malinconia e rabbia -, gli ultimi li avevi spesi per pagarsi la corsa dallo Spazioporto fino alla grande e brulicante metropoli. Le scarpe le aveva smarrite da qualche, nella stiva della nave mercantile a cui aveva pagato un passaggio - sola andata senza guardarsi indietro -, e qualche membro dell'equipaggio aveva deciso che un paio di stivali bucati sul tallone gli andavano a genio.
La città l'aveva risucchiata nel suo grembo non appena era scesa dal mezzo, investita dall'umanità frenetica e affamata una megalopoli costruita con lo stesso affanno in cui vivono i suoi abitanti - randagi criminali e puttane. Santoni e politici corrotti. Maracay, anche vista da sotto in su a distruggersi la schiena su un pavimento lercio, era rissosa, selvaggia e libera, libertà di ogni genere e senza distinzioni.

Proprio quello che stava disperatamente cercando lei.
Non era esattamente quello, tuttavia, il punto di partenza che si era imposta; era stato facile, fin troppo, arrivare lì dove aveva sognato di scappare, minacciando più volte sua madre di prendere la porta e non tornare più. Aveva ingoiato paura e pensieri per mettere il piedi fuori dalla dannata porta, e adesso se ne stava lì: a fissare il soffitto alto e screpolato, le orecchie ovattate dai passi dei viaggiatori che rimbombano sul pavimento, e a chiedersi per quindici, assurdi ed eterni secondi chi diavolo fosse lei - una sconosciuta alla stazione.
Qualcosa le si era già iniettato sotto pelle, deliziosamente crudele, e non ne voleva sapere di venir via: un sottile senso di inquietudine, recalcitrante, che le urlava di alzarsi da quel pavimento e immergersi nei tortuosi vicoletti della notte maraqeña, viva e bestiale come le luci soffuse che punteggiavano le favelas promettevano.
Voltò il capo, strofinando i lunghi capelli biondi - arruffati e annodati - sulla stoffa della sacca, per poter mettere a fuoco l'uscita, venti passi più in là. C'era un mondo, là fuori - la pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno -, che aspettava solamente di essere assaggiato.

Senza soldi senza progetti. Senza pensieri.
Jordan Fox si alzò da quel pavimento, una notte di tanti anni fa, e mosse i passi nella buia e tiepida tenebra di Tartagal; si era scelta la sua personalissima discesa nella Città Dolente, chiudendo gli occhi e prendendo un respiro profondo.
E non pensò, neanche per un istante, che alla fine di quell'arcobaleno che i suoi sogni di sedicenne scapestrata avevano fantasticato, ci fosse tutt'altro che dell'oro.

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