lunedì 29 dicembre 2014

It's not a silly little moment.

New London, New London, 2516


L'essenziale ma smaccata ricchezza del salotto di Virginie Saintsimoncieli di cemento, prati di dollariè brulicante di invitati, educatamente ciarlieri - calici e bollicine dorate, tintinnii argentini quanto le risate della padrona di casa. Jordan Fox, eludendo la sorveglianza di Bastienne, è sgattaiolata via alla prima occasione utile, quando tra una costosissima tartina sintetica e l'altra hanno smesso di domandarle com'è vivere su uno Skyplex, come mai conosce Virginie, perché è arrivata in ritardo alla festa per gli auguri di Natale. Lei, che il Natale non sapeva nemmeno esistesse prima che le spiegassero la tradizione cristiana a cui fa riferimento, così rara nei Pianeti Centrali.
La moquette candida è soffice sotto le ginocchia, accovacciata come una bambina sul pavimento della stanza dei giochi di Sophie; il vestito che le hanno fatto indossare - una gonna non sua, un maglioncino non suo - è spiegazzato come se ci avesse dormito sopra. S'è levata le scarpe - anfibi, immancabili - non appena entrata nel regno della pupattola che le sta giocando di fronte, impilando cubi di colorata plastica trasparente. La mano di Jordan sta tracciando qualcosa su un foglio di carta - un blocco da disegno -, alterna occhiate smeraldine tra la bimba bionda e l'immagine che sta prendendo vita sul foglio, schizzo dopo schizzo, tratti nervosi e sicuri.

- Dove altro potevi essere, sweety?

Le consonanti di Virginie le carezzano le orecchie - la coscienza - e le curvano le labbra in un sorriso sornione, senza farle staccare gli occhi dalla sua bambina. Quanto l'è mancata.

- Gli amici di tuo marito mi guardano come fossi un animaletto da compagnia mal addestrato.

Una risata argentina, divertita.

- Ma lo sei, Jordan.
- Shut up, 'Ginie.

L'affetto con cui le dice di stare zitta - parole mormorate contro il cuscino, tempo fa, una vita fa - calca la grafite sul foglio, gonfiandole un respiro dolce dentro il petto.

- Tua figlia è sempre più bella.
- And so are you.

La padrona di quella casa ha sempre avuto il potere, silenzioso, di prenderla in contropiede ogni volta che apre bocca. Ribatte tenendo la palla in gioco, segnando un silenzioso punto nel personalissimo conteggio di Jordan di chi è stato capace di farla, in qualche modo, innamorare. La sbircia da sopra la spalla - arruffate ciocche bionde -, inchiodandola allo stipite dove è poggiata, braccia incrociate. Sembra anche lei una bambina, esattamente come se la ricorda.

- Stop it.
- Or what?
- Virginie ..
- What?
- You know.

Taglia corto, secca come un ramoscello che si spezza. Brusca, arruffa il pelo, tornando a grattare la punta della matita sul foglio, prima che succeda - che voglia far succedere - ciò che aveva promesso non sarebbe più accaduto. Sophie ha intercettato la sagoma di sua madre, sulla porta, e le sta mostrando orgogliosa la costruzione di cubi che sta prendendo forma sotto le sue manine. E' Hall Point, secondo lei, dove lavora JayVirginie sospira, con pazienza.

- Non insegnare alla tua figlioccia a costruire quel luogo infernale.
- Quel luogo infernale mi dà da vivere, honey.
- Avrei potuto comprarti io, ma no ..
Sospira.
- Don't start that again ..
- .. Hai preferito buttarti via da un padrone all'altro e finire quasi ..

Le parole si imbrigliano tra le labbra di 'Ginie e la punta si spezza sul foglio, un boccolo arricciato sulla spalla di Sophie è bucato, sulla carta sottile. La rabbia di Jordan, difficilmente controllabile, sta gorgogliando cupa come il cielo prima del temporale. Sorda, ovattata. Non commenta, ingoia il silenzio guardingo dell'altra bionda senza fissarla, sentendo il suo sguardo chiaro addosso, sulla schiena. Riprende a disegnare come nulla fosse, chiudendosi in un silenzio scontroso.

- Ti trattano bene?

Tace. Relegare in un limbo i suoi pensieri insieme a momenti folli di dubbi e insicurezze, quelli dove l'indistinta, sgradevole sensazione che per lei non ci fosse davvero posto da nessuna parte era stata relegata, dimenticata. Scordata - simile a uno strumento che aveva perso la capacità di scavarle a pugni un buco di malinconia nello stomaco, da quando Ebwar le aveva stretto un collare attorno al collo e l'aveva chiamata sua. Si erano avvicendati tanti padroni, dopo di lui, e l'ultima della lista - padrona, amica, amante - aveva cominciato a chiamarla nella sua cabina sempre più spesso.

- Aye.
- E tu tratti bene gli altri?

Il pensiero delle ossa della falange di Cath Meyer che si spezza sotto le sue dita - deliziosamente crudele - le serpeggia in fondo agli occhi verdi con un crack, affogato in un sorrisetto selvatico, tra le ciglia bistrate di nero che trascina sui ricami floreali del vestitino orientale di Sophia. Una piccola bambolina cinese - porcellana e fili dorati.

- Quando se lo meritano.

Sente solo troppo tardi la presenza di Virginie alle sue spalle - il tappeto fidato su cui nascondere il rumore dei passi. Il fruscio dei pantaloni eleganti in cui è avvolta è seta, velluto alle sue orecchie, mentre si accovaccia di fianco a lei, 'sì da poterla osservare più da vicino. Le si offre, docile, e le permette di frugarle dentro senza problemi, come ha sempre fatto. Non ha bisogno di specificare che è più la terra bruciata che si lascia attorno, piuttosto che la comprensione. Sono le dita affusolate della Saintsimon, quando si poggiano sul suo braccio, a farla sussultare; vorrebbe non ci fosse lana, tra i suoi polpastrelli e la sua pelle.

- Be good.

Mormora, pacata. Nemmeno se l'avesse urlato - ordinato, imposto - avrebbe ottenuto un'annuire così sincero, viscerale, da parte della schiava. Come sempre, la sirenetta ha un potere che molto spesso non si accorge neppure di possedere.

- Per il resto?

Un kaleidoscopio di volti luoghi persone fatti le rimbalza in testa, accecandola per un istante. Smarrisce gli occhi verdi sui cubi di Sophie, sovrappensiero. Sulla Lattina c'è gente che va e gente che viene, gente che parte e gente che non ritorna. Per il resto, ci sono Sharon e Daphne - una che resta - sempre e comunque-, l'altra che sparisce, ritorna, se ne va. Per il resto, c'è Siddartha Beaumont, la Bloom e le caramelle annegate nella vodka. Non sapeva cosa fosse stato più dolce, se le sue mani sulla schiena, tra le ciocche bionde, sulle cosce - dappertutto - o la risata che le aveva gorgogliato sulla bocca. Strafatto, infatuato, ubriaco. Non faceva differenza. Per il resto, c'è Elian Chernenko, a cui avrebbe voluto serrare le mani attorno al collo e stringere, stringere così forte da tatuarle sulla pelle candida della gola il suo nome. Ci ha letto la stessa richiesta, in fondo a quegli occhi chiari, la stessa, furiosa disperazione di chi solo autodistruggendosi può ancora sentire qualcosa. Per il resto, c'è Vivienne Carter che la crede la sua Princess Charming, che la comprende, che le fa venir voglia di regalare origami e fiducia. Ha guardato sotto la scorza dei suoi occhi di cristalli e ci ha visto la stessa vita spezzata; anche in quelli di suo fratello, Virgil, c'è la stessa, vischiosa oscurità che la risucchia senza appello, come una falena attratta dalla luce. Per il resto, c'è State Gallant - all'Ufficio Postale, un'occhiata eloquente -, c'è Cath Meyer - una mela spezzata,' ché l'amore fa questo secondo Jordan, ci spacca in due e ci fotte se colui o colei che s'è staccato se ne va, infine. Perché una delle verità di questo 'Verse, in fondo, è che se ne vanno tutti prima o poi.

- Eddie's gone.

E' l'unica cosa che si lascia sfuggire, dal flusso disordinato di pensieri. Virginie la sbircia, in un silenzio comprensivo, prima di poggiare il capo contro la sua spalla. Sospira. Sophie le osserva e sorride, non capendo fino in fondo, ma fiondandosi verso di loro in una risata divertita per abbraccio collettivo, affondando i boccoli biondi nel maglione grigio perla di Jordan, strofinando il nasino contro la lana con l'entusiasmo che solo i bambini riescono a conservare.

- Merry Christmas, Jay.
- Whatever, 'Ginie.

venerdì 28 novembre 2014

Rapsodia in bianco.

Le lenzuola sono stropicciate, arate dalle unghie di chi vi si è rotolato fino a poco prima.
Fuckin' Princess Charming.
Il metallo della scrivania è freddo - gelido - sotto la sua schiena sfregiata, ma le mani che le stanno imprimendo a fuoco la pelle sono roventi, almeno quanto le minacce di poco prima.
Ti insegno io a scoparti una puttanella qualunque.
Il palo di legno, nella carne di Easton, si è infilato quasi fosse burro - lo scrocchio della cassa toracica, della spina dorsale, alle volte le solletica l'orecchio. Di notte, quando sopprime i fantasmi di chi non sa nemmeno il suo nome ma l'ha guardata negli occhi prima di morire.
Impalatelo.
Il bavero della camicia a scacchi, serrato tra le dita - nocche bianche per la rabbia - è ruvido almeno quanto lo strattone che lo lascia andare, stazzonato. Disgustato.
Fox - il sibilo che le azzanna i nervi, ogni volta.
Che sia in accento meilita o buller, la frustrazione è la stessa, soffocante e vischiosa.
Gli occhi di colui - colei? - che la osserva da un lettino dell'infermeria parlano di una rassegnazione che lei conosce bene, senza l'amarezza che ha avvelenato la sua anima da quella notte su St. Andrew - troppi anni fa. Avrebbe voluto strappare l'arrendevolezza placida - fastidiosa - direttamente dai polmoni di Garcia, quella consapevolezza che qualcosa - Qualcuno - adesso è in pace, perché la fede l'ha riportato sulla giusta strada.
La rotta di Hall Point, nello spazio buio e silenzioso, è lastricata di polvere bianca - polvere nera polvere gialla pilloline e fialette - e cadaveri, che lei ammonticchia uno dopo l'altro, proiettile dopo proiettile, anima dopo anima.
Jordan Fox, la moralità, l'ha smarrita ormai troppe vite fa.


Vieni a fare un giro dentro di me 
o questo fuoco si consumerà da sé.

giovedì 16 ottobre 2014

La descrizione di un (tanti) attimo.

Whitmon, Thyatira, 2503

Jordan Fox sente sua madre scopare nell'altra stanza. Le pareti sono troppo sottili, i gemiti troppo alti - il materasso scricchiola sotto il peso dell'ennesimo sconosciuto raccattato non sa dove - perché non le trapanino le orecchie senza riguardo alcuno. La schiena poggiata contro il muro dipinto di azzurro - l'aveva voluto lei, da piccola - la nuca rovesciata contro una crepa che non vuole saperne di chiudersi. Ci prova sempre, si incrosta le unghie di stucco e ci lavora, ma ogni volta è peggio di prima. Quel dannato materasso scricchiola, e una parte di lei si chiede se non sia il caso di battere contro il muro e urlare diavolo, smettila un po' mamma, se Adam ci sa fare sono affaracci tuoi. Se si concentra attentamente, può quasi sincronizzare il respiro con i cigolii delle molle dell'altra stanza. I capelli corti alle spalle, biondi, le solleticano il collo - ricrescono piano piano. Sta chiusa lì dentro e conta la risacca delle onde che si ode in lontananza, lungo la stradina tortuosa - sassi malamente accoccolati l'uno all'altro - che precipita verso il porto. Conta in silenzio e si immagina di non essere lì in quella cameretta, in quella casetta arroccata sulla brulla scogliera di Thyatira. Finestra socchiusa, la brezza tiepida di una sera d'estate - friniscono i grilli nei campi sparpagliati sulle colline - le solletica la pelle. Su Whitmon, anche l'inverno ha l'aria gentile, come fosse un'eterna primavera - pennellate roventi quando viene luglio. Chissà se questo prossimo luglio tornerà Raphael - contrabbandiere pescatore donnaiolo - e le racconterà una nuova storia. Chissà se questo Adam rimarrà più di un paio di orgasmi giorni e sua madre riuscirà finalmente ad essere felice.


Richleaf, Maracay - Tartagal, 2507

Piedi scalzi sullo sterrato di Maracay - Tartagal e i suoi vicoletti, un budello di bile, preghiere e bestemmie. Piove, è la stagione in cui su Richleaf decide di scaricarsi tutta l'acqua che gli ha succhiato la linfa, fino al midollo, rendendolo sabbia rossastra e baracche. La stessa acqua che si rovescia implacabile su tutto Polaris, sulla jungla di Bullfinch - i soldati, al fronte, annaspano nel fango. Jordan Fox se ne frega della Guerra. Se ne frega della campagna invernale, dei bollettini che arrivano di tanto in tanto, in holovisori gracchianti nascosti come tesori in qualche bar. Jordan, invece, balla un lento sotto la pioggia, allacciata a Tulio - dita callose affondate nelle sue ciocche rosa. La tiene stretta, così stretta da mozzarle il fiato - forse, se allentasse la presa, lei correrebbe via e non tornerebbe più indietro. Ha le nocche contratte contro la stoffa fradicia della schiena di lui, dondola piano, senza un ritmo - chitarra scordata, uno dei tanti gitani che brulicano nei quartieri. Balliamo, le ha detto lui - risate Switch e tequila. Non so ballare Tulio. Tranquilla che t'insegno chica, è facile. Segui me, come la prima sera. E Jordan lo segue, cieca e infatuata; lo segue con così tanta fede e ardore che si trascinerebbe in fondo al pozzo buio dei suoi occhi neri, pur di non lasciarlo andare.

Seven Hills, Port Inverness, 2511

La stoffa del maglione è ruvida sulla pelle nuda. Silenziosamente si chiede se non fosse stato meglio metterci qualcosa, sotto la lana. Ha uno shotgun a tracolla e la schiena dritta - sull'attenti Jordan Fox - mentre osserva padron Ebwar trattare con lo schiavista di turno. Fiato che diventa fumo nell'aria gelida, non sa neanche in che mese sono - non importa sono viva. La guardia del corpo dell'altro uomo, un asiatico dagli occhi grigio scuro, la fissa da quando è entrata in quella tenda improvvisata - spinge uno sguardo affilato quanto le sue lame addosso al suo collare elettrico. Jordan dondola sui talloni e arruffa il pelo, mordendosi silenziosamente la lingua per non chiedergli che cazzo hai da guardare muso giallo. Ci sono alcuni schiavi - dissidenti disertori prigionieri di Guerra - che lavorano nelle miniere di carbone - giacimenti poco fuori la capitale - a cui Ebwar è interessato. È comodo rivenderli, posso guadagnarci, dice lui. Charlie scuote il capo in un sorriso macchiato di nero. Respira carbone come tutti gli altri - viscida e densa polvere che impasta i polmoni - e anche se il suo completo è candido come la neve di St. Andrew, tutto questo bianco non laverà la sua coscienza. Non accetta. Ebwar adocchia Jordan, che raddrizza il capo in attesa di ordini - Eimì obbedisce, Eimì obbedisce sempre. Andiamo via, Jordan. Secco, spiccio. Il tono di Ebwar è così diverso quando sono davanti a tutti - il padrone comanda, il padrone pretende. Nella vasca da bagno - bollente nel rigido inverno di Seven Hill - la sua voce è una carezza, le sue mani sono gentili sulle cicatrici ormai rimarginate - non importa, sono bestie quelle che non hanno visto quanto sei bella. Eimì, mia preziosa Eimì.


The 'Verse, Skyplex Hall Point, 2516

Dopo mesi sulla lattina, non ha ancora capito quale sia il fuso orario. Il buio dello spazio - stelle sparse a manciate su velluto blu scuro - è sempre uguale, freddo e inospitale, arroccato contro i larghi finestroni del corridoio panoramico. Il metallo della panchina è scomodo, la divisa rossa e nera è troppo stretta. Occhi verdi fissi sullo schermo del c-pad, le cui ultime notizie - non sa quando non sa perché - rimbombano silenziose dentro la sua testa, al ritmo della lettura silenziosa con cui le sta spingendo tra i pensieri. Qualcosa le azzanna la gola, stringendo come se un paio di mani invisibili le stessero premendo sulla carotide, soffocandola - fame d'aria. Il Core sotto attacco, è strage - la Centrale Elettrica di Timisoara, il boato delle fondamenta che si accartocciano come carta straccia. Lo scarabocchio confuso delle tante persone che conosce - Eddie Daphne Owen 'Ginie Wolf tutti gli altri - le macchia i polmoni di un respiro affannoso. Come Charlie che respirava carbone, su Seven Hill; come Raphael che si asfaltava il fiato di nicotina - su Victory, diceva lui, Raphael è il patrono dei viaggiatori, perché coi contrabbandieri dovrebbe essere diverso?; come Tulio, che mentre le moriva tra le braccia - uno stillicidio scarlatto dalle labbra, sotto le sue mani - sembrava respirasse solo le sue ciocche rosa, 'che tanto l'aria non gli serviva più. Scivola lungo la seduta fino a poggiare la nuca contro lo schienale, rivoltando uno sguardo contro il soffitto e un respiro spezzato. Jordan Fox, per il momento, altro non può fare.

venerdì 26 settembre 2014

Run fast.

Horyzon, Capital City, 2516


Ad ogni passo sull'asfalto sente rimbombare le suole delle sneakers sfondate nel silenzio dell'Unification Park; l'appartamento di Eddie non è molto lontano, ma questa volta è lei l'insonne.
E' sgattaiolata fuori dopo la loro ultima discussione, e non sembra avere altro posto dove andare.
Corre - luce fredda dei lampioni elettrici, ombre scure sullo sterrato fin troppo ben tenuto - come se fosse inseguita, quando in realtà è solo la sua testa a tormentarla.
Schiena - sfregi sotto la stoffa della maglia - imperlata di sudore, fiato corto ma fisico d'atleta.
Corre e ricorda le mani di Daphne, la sua bocca, su di lei - Love Sugar e dolcissima assurda insensatezza; ricorda anche quelle di Sharon, serrate a strattonare il suo collare come se le volesse mozzare il respiro tra le corde vocali - «Non ti pianto una pallottola in fronte solo perché mi servi.» - e quelle di Shaw che la allontanano fermamente - «Non ti preoccupi per te, perché dovresti farlo per me?».
Scrolla il capo - un cavallo nervoso per le mosche - mentre curva e segue il sentiero, silenzioso quanto i suoi brulicanti pensieri. Si domanda, cupa, cosa sia davvero successo alle Terrazze Verdi - Wolf che lei ha visto sullo schermo di un c-pad con una pistola alla tempia e invece è stato arrestato per intralcio alla giustizia.
Non sono io la bugiarda, Wolfwood.
Ha promesso a Kenzi che non avrebbe più indossato il collare - clausola del nuovo contratto firmato -, ma dopo sette anni con del metallo sulla pelle sentirla nuda - un succhiotto viola, come le adolescenti - è una sensazione che non sembra piacerle granché.
Insetto inchiodato da spilli di schiavitù, una creatura volgare, che acquista un valore soltanto sotto vetro - in virtù della propria prigione.
Jordan Fox non ha mai amato i cambiamenti, eppure pare che la sua vita, per un motivo o per l'altro, sia sempre stata mutevole come il vento.
Si ferma.
Inchioda coi talloni sullo serrato e si china in avanti, poggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato - ampie boccate d'aria, 'ché qua è vera e non riciclata come sulla Lattina.
Si è fermata, senza neanche accorgersene, davanti al palazzo di Virginie.
Alza gli occhi al cielo buio - le tre, le quattro forse - per arrampicare lo sguardo su per la parete di vetro e acciaio, fino a trovare il finestrone che le interessa.
La luce dell'appartamento è spenta, ovviamente - chissà se ci sono ancora i suoi disegni appesi alle pareti.
Chissà se si ricorda ancora di me, tra prati di dollari e cieli di cemento.
Chissà se tutti quelli che si è lasciata indietro - tante vite fa - pensano ancora a lei, qualche volta.
Del che si sente in colpa, Baker che la odia, Nanà che se n'è andata.
Saren e Sylene che tormentano il sonno di Eddie e lo fanno vivere coi fantasmi.
La piastrina con la mano insanguinata, nascosta sotto la stoffa, non è mai stata così pesante.
Probabilmente è nostalgia quella che le afferra lo stomaco - e morde, morde -, ma qualcuno le ha sempre raccontato che le cose esistono solo se hai le parole per definirle.
E Jordan, con le parole, non è mai stata brava.
Non può fare altro che girarsi e ricominciare a correre.

sabato 20 settembre 2014

Walking Disasters.


She used to get her kicks from a fall to the floor,
but now she's always wasted
A total looker, but she's jaded.
The kind of shivering wreck that I adore.



venerdì 15 agosto 2014

The Devil's Knot.

Whitmon, Ilida, luglio 2516

Il sole brucia la pelle candida, un sole a cui non era più abituata - lentiggini brune su pelle ambrata.
Jordan Fox lavora - schiena curva e mani rovinate. Annoda fili, rammenda reti, pulisce barche.
Non è Thyatira, troppi bisbigli, troppi volti; Ilida è un paesello arroccato nell'isoletta a fianco: più brullo, più povero, più assolato.
Jordan vorrebbe smettere di pensare - un brusio continuo e persistente - e ascoltare solo gli strilli dei gabbiani che reclamano la loro parte - gambe a penzoloni oltre le assi del molo.
Infila gira annoda.
Infila gira annoda, ancora.
Lo sguardo è perso sulle onde dello sterminato mare che copre tutto Whitmon, come un mantello blu scuro, e si chiede silenziosamente cosa succederebbe se prendesse una barca e semplicemente sparisse, prendesse il largo senza più tornare indietro.
Il primo nodo che termina - o il ventesimo, ha perso il conto - lo regala a Wolf.
Lars Wolfwood a cui ha tirato un pugno - ti odio ti odio ti odio -, Lars che l'ha ceduta senza neanche avvisarla, Lars che afferma la falsità della sua obbedienza - del suo affetto.
Le sue nocche, quelle stesse nocche spelate che maneggiano la ruvida rete incrostata di salsedine, si sono schiantate contro le sue ossa - e contro quelle di Serafel.

« Voglio solo che smetta tutto questo. »

Anch'io, urla silenziosamente Jordan Fox, anch'io voglio che smetta tutto quanto.
Si sveglia la notte - spartana cuccetta, stanza in affitto vicino al porto - e urla, urla senza neanche accorgersene, finché uno dei coinquilini non lancia una scarpa contro la porta e le sbraita di smettere, 'che se ha problemi vada da uno strizzacervelli e lasci dormire loro.
Il secondo nodo - stretto stretto - è per Lucifero.
Ezra Crane che la disprezza, Ezra che la guarda con sufficienza, rabbia, supponenza. Che le ha permesso di scegliere la sua punizione, una volta diventata sua proprietà, e le ha messo una pistola in mano. Si è sparata, per Lucifero, e l'arma si è rivelata scarica. Avrebbe voluto urlare di nuovo, invece si è ritrovata carponi sul pavimento a vomitare bile - la paura di una morte mancata che le ha rivoltato lo stomaco.
Il lapidario messaggio - minaccia - con cui l'ha liberata le ha gelato il sangue nelle vene.

Su Whitmon è nata Jordan Fox, venticinque anni fa. Senza collare.
Su Whitmon ci è tornata, quasi dieci anni dopo. Senza più un collare.


The 'Verse, Skyplex Hall Point, Agosto 2516

Su ogni Skyplex, l'aria è riciclata; profuma di disinfettante - un vago retrogusto di limone - o forse è semplicemente lei che sta impazzendo del tutto.
Il suo alloggio su Hall Point è una stanza piuttosto piccola: un bagno, un letto, una scrivania.
Ha già incollato qualche disegno sulle pareti - metallo della Lattina -, non ha neanche disfatto i bagagli; ha una sacca di tela rovinata, vestiti appallottolati, due pistole.
La divisa dello Staff è appesa all'armadio a muro, minuscolo, 'che le hanno raccomandato di tenerla da conto, di non rovinarla. E Jordan, si sa, obbedisce.
Quasi sempre.
Si sta rigirando tra le mani, assorta, un cerchietto di metallo levigato, sottile e leggero, eleganti incisioni dalla parte della chiusura - il nodo, il quarto nodo, per Daphne.
Daphne Kim che ha ordito trame alle sue spalle per comprarla, usando il suo terzo nodo - un collare spartano, di acciaio lucido, tondo -, Sharon Mackenzie. Daphne che l'ha scambiata come fosse un giocattolo, acquistandola senza neanche avere il coraggio di esporsi in prima persona e reclamandola alla Head dello Skyplex. Roba sua.

« Davvero non capisci, Jordan? »

No, davvero non capisce Jordan Fox perché la vita ha fatto i giri che ha fatto; perché ha rivisto Abigail - Catìra - dopo quasi otto anni, dall'ultima volta a Las Rosas. Abigail che l'ha guardata e le ha parlato di responsabilità, di prendersele e vivere davvero la vita. Abigail che non l'ha riconosciuta subito, che la ricordava coi capelli rosa e un sorriso vero, feroce - quando non era annebbiata dalla Switch.
Non capisce perché dal Bazaar - banco di Olson - e da Joe Black sia ritornata lì, dall'altra parte della barricata. E' come se la vita fosse andata troppo veloce - troppo in fretta, troppo dolore - e non le abbia chiesto il permesso prima di fermarsi.
Disorientata.
Jordan ha il collo nudo, in quella stanza, mentre silenziosamente riflette sul quarto padrone che le regala un collare - padroni diversi, gusti diversi.
Jordan pensa a Eddie - Shaw che non si fa più sentire, arrabbiato o semplicemente esasperato - e Virginie - bionda sirenetta a cui ha detto che sarebbe tornata e invece non l'ha fatto.
Quando non riesce più - non vuole più - a pensare perché le scoppia la testa, si infila il collare allacciandolo dietro la nuca in un fruscio definitivo.
Forse.
Con i suoi padroni, ultimamente, non c'è molto da star sicuri.

domenica 13 luglio 2014

Strade che si lasciano dimenticare.

Ha tappezzato la parete della camera di Virginie con fogli e disegni, schizzi e scarabocchi.
Ha scombinato l'ordine che solitamente regna sovrano nella stanza spaziosa - finestroni a picco sullo skyline di Capital City.

« You didn't replay. »

Non sopportava più quel bianco abbacinante - intonaco candido su cui ancora rimangono confitte alcune di quelle puntine che nessuna di loro è riuscita a levare dopo quella notte.

« I don't want to be on my own. »
« Virginie, what the fuck is goin' on? »
« Jordan, I don't wanna them here. »

Un grottesco collage di articoli di giornale - quelli ancora cartacei che resistono per i corers troppo snob per volere solo la versione digitale -, foto, parole, macchie rosse di pennarello.
Loss, Death, End, Hell, Voices. 
Un airone blu - origami in carta di caramella - spillato di fianco ad una Jordan immortalata in foto, più o meno al centro della scena, collegata ad un assembramento di volti a lei tutti noti - crocifissi contro il muro dalle ossessioni di una mente terrorizzata.
Nella penombra di una stanza con una parete di vetro - gli acquari delle Terrazze Verdi ormai esplosi -, i sussurri che tormentano la coscienza della reporter rannicchiata sotto il letto li ha sentiti anche lei.
Altri mostri, altri fantasmi - mani avide in un seminterrato a Gokinai, sul polveroso Boros.
Non toccarmi non toccarmi non toccarmi non toccarmi.
Crepitano sotto la pelle, viscidi e silenziosi, e non importa quante volte si è pizzicata la pelle candida fino a farla illividire.
L'ha tirata fuori da lì, le ha fatto il bagno e l'ha messa a letto.
E' rimasta a fissarla troppo a lungo, accovacciata sul pavimento, il mento appoggiato al materasso, e qualcosa - paura stanchezza sensi di colpa - l'ha fatta restare a contare i suoi respiri, come un mantra, prima di addormentarsi esattamente lì dove si trovava.
Adesso pensa alla camera di Eddie, mentre contempla il lavoro che ha fatto sulla parete, e si chiede silenziosamente se il medico - sguardi silenziosi e gelidi - sia ancora arrabbiato con lei.

« Dovresti smettere di fare la bambina e crescere un po', Jordan. »

Pensa a lui in una casa vuota - no, non è vuota, c'è Tac -, pensa a lui a cui non ha risposto, pensa al braccialetto nascosto in fondo ad una sacca.
Pensa che se non gli passa stavolta - non odiarmi, l'hai promesso, non odiarmi -, non gli passerà mai più.
Ha uno sbaffo di quella che sembra grafite - carboncino matita sanguigna - sul naso spolverato di lentiggini. Jordan Fox non è mai cresciuta davvero, è semplicemente diventata grande perché il tempo è passato.
Pensa a Daphne, nascosta in una grotta diventata rifugio - bambini persi e confessioni -, pensa alle sue dita tra i capelli umidi intrecciare ciocche solitamente arruffate.
Pensa a Serafel - occhi di vetro e parole profonde - e alla treccia che lei stessa le ha fatto, ribaltando i ruoli.
Trascina un'occhiata verde lungo tutto il muro ricoperto di fogli, seguendo distrattamente la messa su carta dei suoi pensieri.
Principesse cigno - candide e immacolate, fatte di neve - che diventano tali solo una notte al mese, soffici piume sotto le dita, Sirenette blu cobalto, fiamme gialle - Maracay, la testa del Gemelo che scoppia come un pomodoro sotto il suo fucile -, occhi grigi, occhi azzurri, occhi bianchi - « Ma tu ce li hai, gli occhi? » - mani nere, macchie rosse.
Svuotarsi la mente e inchiodarla alla parete per poter tracciare uno schema, anche solo un sentiero tortuoso, che la conduca fuori dalla palude in cui sente di essere affondata fino alla gola.
Pensa a Wolf, alla sua delusione - « Non te lo posso perdonare. » - all'ennesimo errore che ha deluso qualcuno.
No, non qualcuno: il suo padrone.
Pensa a Dragan, per la prima volta dopo tanto tempo, e pensa a come sarebbe stata diversa la sua vita se l'avesse tenuta con lui - se l'avesse amata, almeno un pochino.
Si accorge di qualcosa che le solletica la guancia solo in ritardo, quando raggiunge le labbra.
Chissà per quale strana alchimia le lacrime dei bambini diventano sale, quando crescono.
Un ringhio frustrato, da animale braccato, le solletica rabbioso la gola.
Barcolla verso il bagno - troppe caramelle troppa tequila troppi pensieri - e si schianta nella doccia, vestita, sotto un getto bollente.
Neanche così, probabilmente, riuscirà a lavarsi di dosso tutto quanto.

domenica 29 giugno 2014

Holding hands while the walls come tumbling down.

Richleaf, Maracay - Tartagal, 2507

Era una dura, si ripeteva sempre.
Era una da cui guardarsi, a cui stare attenti, che non si faceva problemi a prenderti a pugni se pensava l'avessi fissata in un modo che non le piaceva.
In realtà, aveva solo l'aria randagia di una creaturina affamata - come sei mesi lontana da casa possono consumare la carne e l'esistenza.
Lì, riflessa nella sporca vetrina di un bar, dimostrava più anni di quelli che indicava il suo idn chip nel polso destro e aveva gli occhi - verde bistrato di nero, gatta selvatica - di chi è pronta davvero a qualsiasi cosa pur di mangiare.

« Che cazzo fai, Jor? »

La voce musicale di Tulio - inglese masticato dal maraqueno, sporco e confuso - la fa sussultare. Allontana svelta i polpastrelli dal vetro rovinato; sotto il sole bollente della stella Polaris, le strade sono deserte e insolitamente tranquille - la sacra ora della siesta.
Le cicale gracchiano un gran fracasso tra le lamiere delle baracche, sapientemente mescolate a palazzi alti e raffinati, rari e sporadici - frutti rimasti di un albero che è stato spremuto di ogni linfa da insetti affamati.

« Niente. »

Si sente improvvisamente stupida, sotto gli occhi scuri di Tulio - torbidi e neri un burrone dietro le ciglia -, in quella constatazione colpevole della bimba colta con le mani nella marmellata, che urla tutti i suoi sedici anni - tutta la sua ingenuità.
Il ragazzo ride, piuttosto sguaiato, prima di afferrarla per un gomito e trascinarla via dalla vetrina, scuotendo rassegnato il capo.

« Ahi querida, non fare la cagna che mendica un osso. Ti ci porto io a mangiare. »

Jordan non sa ancora se fidarsi fino in fondo di lui - una diffidenza che comincia a nascere, crescere, piantar radici profonde -, conosciuto solo due mesi prima in una bettola come tante.
La sua prima volta, la sua prima sbornia.

« Stai con me e vedi che Maracay ti offrirà tutto quanto. »

Forse è la fame, forse una sciocca infatuazione - forse 'ché non ha nessun altro, su quel Pianeta sperduto nel 'Rim. Non ha ancora capito, dopo tutti questi anni, cosa effettivamente le fece serrare le dita affusolate attorno a quelle ruvide di Hidalgo, seguendolo ovunque lui volesse, facendo qualsiasi cosa comandasse.
Intercetta nuovamente il suo riflesso nella vetrina del locale - dentro, una vecchia partita di Pyramid su un holotelevisore traballante di interferenze.
Si accorge - uno sfarfallio allo stomaco - di non riuscire
a ricordare chi è per almeno quindici, assurdi secondi. Non ha paura; è semplicemente qualcun altro, una sconosciuta, e tutta la sua vita era una vita stregata, la vita di un fantasma - capelli rosa tinti nello Spazioporto di Sieg prima di prendere un Wyoming e non voltarsi più indietro.
Era a metà strada fra una stella e l'altra del 'Verse, al confine tra il Border della sua giovinezza e il 'Rim del suo futuro.
Sparendo con Tulio lungo uno dei tanti vicoletti di Tartagal, uno dei mocciosi della Regina del Voodoo la fissa nascosto tra due cassoni dietro quello stesso bar, frugando tra gli avanzi se c'è qualche briciola per lui.
Jordan prega, prega la Santissima Muerte di non dover mai guardare qualcuno con quegli occhi.



Richleaf, Maracay - Tartagal, 2516

Forse è in quello stesso bar di quasi dieci anni fa - non ricorda, ci è arrivata a tentoni - quando rovescia l'ennesimo shot di tequila sul legno lercio del bancone.
Il proprietario ha tenuto lo stesso holotelevisore traballante, ma le immagini piene di interferenze che trasmette sono di tutt'altro tipo.
Giunge come un tam tam impazzito la notizia di un'esplosione nel cuore della città, tardo pomeriggio circa verso le 18.30, ad essere stato colpito è il palazzo delle Terrazze verdi.
Tra il caos dei soccorsi, dei feriti, dei curiosi, l'immensa colonna di fumo sollevatasi dal punto del fragore è ancora visibile nel cielo di Capital City per almeno due ore dopo l'accaduto.
Chiunque nel raggio di km sembra aver potuto ascoltare il suono prodotto dallo scoppio, non ci sono fonti certe che si tratti di un attentato, ma dati i danni strutturali evidentissimi, si suppone non fosse un problema di progettazione. Le fiamme scaturite dalla probabile esplosione lambiscono da fondo il palazzo e si snoderanno verso i piani superiori per almeno tutta la serata, rendendo i tentativi di recuperare i numerosissimi visitatori, ancora più ardui.
L'esplosione dei commenti in maraqueno stretto - imprecazioni chiamate confusione - arriva lontana, distante, esattamente come il fruscio umido dello strofinaccio che asciuga il bancone sotto le sue dita, minacciandola nella stessa lingua che comunque quello lo deve pagare lo stesso.
Jordan non capisce - non lo ascolta: non riesce a staccare gli occhi verdi dallo schermo, ipnotizzata - terrorizzata.
Sente il vischioso rosso del sangue sulle sue mani - Semtex al Black Market di Safeport - e non può nemmeno prendersela con qualcuno - anonime istruzioni, fotografie che non la fanno dormire di notte.
Qualcuno l'ha fatta diventare un'assassina e non sa neanche per quale motivo; le hanno messo in mano una pistola e le hanno fatto premere il grilletto tenendole inchiodato il polso.
Wolf, Shaw, Virginie - pistole, promesse, vernici blu fosforescenti.
Non può chiamare nessuno di loro - nessuno nessuno nessuno - il suo cortex è irraggiungibile da settimane, da quando è sparita per seguire le minacce di qualcuno che la guida come se sapesse esattamente dove si trova in ogni momento.
Non può chiamare nessuno per accertarsi che non ci sia anche il loro, di sangue, sulle sue mani.
L'Angelo della Morte, puntuale, le fa vibrare il nuovo c-pad che l'è stato regalato e appuntato al cinturone.
Un'ora e altri tre shots dopo, sta per varcare la soglia della dimora della Regina del Voodoo, in cerca di ciò che il nuovo messaggio chiedeva.
La preoccupazione per aver di nuovo fatto saltare in aria un edificio - la Centrale Elettrica di Timisoara, tanto tempo fa - l'ha seppellita da qualche parte, dove non può nuocerle.
Non adesso.

In quella vetrina, fuori dal bar, è rimasta una Jordan ragazzina che la fissa malinconica mentre corre via, nei vicoletti, nella direzione opposta rispetto a quella di dieci anni prima.
Come se questo la portasse comunque da qualche parte.

sabato 14 giugno 2014

Never enough.

Clackline, Magione dei Deveraux, 2508

« Again. »
La voce di Amandine le buca le orecchie, ovattata - terrorizzata.
Non urlare ragazzina, cristo santo non urlare.
« Again. »
Il sole di Dorado brucia la pelle pallida, si aggrappa ai vestiti già madidi di sudore in una cappa soffocante, appiccicosa e malsana.
Non guardare giù Jordan, non guardare giù.
Qualcuno, forse il vecchio Byron, aveva tagliato l'erba da poco - profumava di papaveri e peschi in fiore.
« Again. »
Se avesse abbassato lo sguardo oltre la staccionata - stringere il legno così forte da piantarsi le schegge sotto le unghie - non ci avrebbe trovato altro che schizzi di sangue, lo stesso che le imbratta, ferroso, le labbra - affondare i denti nella bocca, torturarla, per non urlare il suo dolore il suo disprezzo.
« Again. »
Ormai ha perso il conto alla quarta, o forse alla quinta scudisciata. La pelle della frusta le azzanna implacabile la schiena, in un groviglio ormai irriconoscibile di sangue, scapole e stoffa lacerata - « Te li ho pagati io i vestiti che indossi, posso levarteli allo stesso modo. »
Forse non avrei dovuto sputargli in faccia.
Quando una voce urla Basta! - un ordine stavolta, non una supplica -, lo sguardo smeraldino di Jordan è ancora fisso davanti a lei, inchiodato alla corteccia della quercia secolare del giardino; i polsi sono strettamente assicurati alla prima sbarra dello steccato contro cui, ormai, si è accasciata.
Qualcosa le serra lo stomaco in una morsa crudele - bile rabbia dolore -, il sudore le incolla i capelli tinti di rosa alla nuca -corti alle spalle, 'che una schiava non può concedersi il lusso avere ciocche color delle peonie.
Dei passi, un fruscio sull'erba, delle risate - latrati di figli di cagna.
Un paio di mani piccole e gentili - Amandine? - si affaccendano svelte, in un tremito incontrollato, attorno al nodo della corda, mormorando un mantra in quello che non tarda a riconoscere come Escravit - « I
t's rightall, it's rightall. »
No, non va affatto bene, vorrebbe risponderle.
Invece, l'ultima cosa che riesce a fare in uno sprazzo di coscienza è piegarsi in avanti e perdere i sensi, nell'ennesimo scossa di dolore che le mastica i nervi.
Non fa in tempo a sentire di nuovo le urla di Amandine - 
« Ma non potete, l'avete già punita! » - mentre la trascinano via.
Alla fine, purtroppo, ha guardato giù.

~

Quando riapre gli occhi - non sa nemmeno più dopo quanto tempo - sta fissando una parete di legno, la guancia premuta contro una superficie rigida e la bocca arida, impastata di sangue.
Il collare di cuoio rovinato le scotta sul collo, bollente.
La schiena fa talmente male che si rende conto già dopo il primo respiro spezzato che non riesce a gonfiare i polmoni come vorrebbe.
Fa per rivoltarsi, come un animale selvatico ferito da una tagliola - istinto, puro e semplice -, ma un paio di solide mani glielo impediscono, stringendole le spalle.
« Tienila ferma Barrow, maledizione. »
Un altro paio di mani la inchiodano al tavolo, con la stessa urgenza che ha sentito nella voce di prima - solo un tremito inesperto, ma risoluto, nell'affondarle le dita nella pelle dei polpacci.
« Ma se tenta di muoversi? »
« Non se, quando. E la risposta è sempre, cercherà di muoversi da adesso in avanti, quindi tienila ferma. »
Solo la voce di Amandine, in quel chiasso diffuso, suona come una melodia rassicurante.
« Non fatele male. »
« Stiamo cercando di rattopparla, signorina, ma non è messa bene. »
Parole che una Jordan sdraiata mezza nuda su un tavolo, con la schiena massacrata, non vorrebbe mai sentire.
« Dovevi portarcela prima, ha la febbre. Rischia di portarsela via l'infezione. »
« Vin non mi faceva andare via. L'ha tenuta legata lì sotto il sole per tutto il pomeriggio. »
Lo spavento e la preoccupazione, nell'inglese titubante di Amandine, sono freschi e sinceri come acqua di fonte - la stessa che c'era a Thyatira, quando doveva sciacquarsi il sale di dosso.
Prova nuovamente a divincolarsi, in una fitta che le strappa un ringhio selvatico e le annebbia i pensieri - non svenire, non di nuovo cazzo Jordan.
« Ci proviamo bambina. Ci proviamo. »
« Grazie dottor Mason. »
L'ago di un hypospray le pizzica il collo - switch, vi prego, datemi della switch - e non fa nemmeno in tempo a capire cosa sta per succedere che dell'acqua - profuma di timo, o forse sta impazzendo - le viene rovesciata sulla schiena. Piano.
Non può non urlare, fino a sfinirsi le corde vocali - mani sagge e dolcemente crudeli la tengono ferma, su quel tavolo, finché le ossa del bacino non cominciano a farle male per quanto si divincola.
Non sente più nulla se non il suo dolore - il timo, l'odore di fieno, i sussurri di Amandine - e un blando tranquillante che comincia a fare effetto - « Ho finito l'antidolorifico, dovrò fare in altro modo. ».
Apre bocca per replicare per respirare - uccidetemi e basta - ma di nuovo la carne devastata della schiena trascina a fondo la sua coscienza, spedendole scosse lungo la spina dorsale.
Samuel Barrow e il suo accento strascicato da 'liner cullano il suo ultimo sfarfallio di ciglia.

« Stop fightin', Jordan. It's 'nough for today. 
»

It's never enough, you dumbass.

venerdì 30 maggio 2014

Just dreaming like we're animals.

Ha sognato una sirenetta, intrappolata nelle profondità di un lago ghiacciato - nei sobborghi di Capital City. Batteva contro il ghiaccio trasparente con mani sottili - troppo fragili - urlando tante bollicine, una sinuosa coda blu scuro guizzante di scaglie nella cristallina acqua della vasca. Capelli biondi come un'aureola, fluttuanti attorno a lei, una collana di conchiglie bianche - tesori conservati di una lei bambina - a serrarle il collo.

Ha sognato una gatta dal manto nero e gli occhi verdi, appostata famelica ai piedi di una voliera piena di tanti uccellini colorati; faceva dondolare la coda avanti e indietro, indispettita dalle sbarre; un sorriso gelido, sornione, che non arriva nemmeno ai baffi - agli zigomi, labbra scarlatte.

Ha sognato un grosso cane da caccia, pelo ispido e sguardo fiero; la rincorreva nel sottobosco, abbaiando e ringhiando come un'intera muta. Lei si intrufolava in una tana spessa, profonda - un fruscio di foglie verdi e arbusti sotto i polpastrelli -, la coda fulva gonfia di paura. Il cuore un tamburo da Guerra - quella che non ha mai combattuto.

Ha sognato un coniglietto bianco, orecchie lunghe e coda soffice, che aveva così tanto coraggio da avvicinarsi a lei e non aver timore di essere mangiato - di ciò che ha fatto in passato. Le dispensava consigli - cioccolatini - e le permetteva di riposare all'ombra del suo albero preferito - nel suo studio alla Blue Sun -, fremendo contro il suo collare come se non capisse fino in fondo perché una come lei dovesse avere quello a rovinarle la pelliccia.

Ha sognato un cerbiatto dagli occhi azzurri - grandi e selvaggi -, placido nel folto di quella stessa foresta, che la guardava da lontano e non si faceva avvicinare, guizzando via da una lama sbucata da chissà dove in un secco suono di ramoscelli. Lasciava ciocche di pelliccia tra i rovi. Lei lo seguiva, senza mai raggiungerlo davvero - nei vicoli di Maracay.

Ha sognato un lupo dal pelo scuro, gli occhi grigi - diverse sfumature - e l'aria solenne; lei abbassava le piccole orecchie contro il capo, intimorita, prima di affondare piano il naso contro la sua pelliccia del collo; nettamente più grosso di lei, ne riceveva in cambio uno sbuffo pigro - quasi volesse insegnarle come ci si comporta. Non poteva far altro che trotterellargli dietro, incuriosita - grata.

Ha sognato una volpe - uno un po' come lei -, pelo fulvo e aria saccente. Le girava attorno e le regalava un fiore - un braccialetto -, prima di spingerla con delicatezza a seguirlo: su per la collina, oltre il ruscello, fino ad un campo di papaveri rossi. E per la prima volta in tutta la sua vita, ha pensato che non ci fosse nulla di male a rotolarsi lì in mezzo assieme a lui e dimenticarsi di tutto il resto - di tutto il 'Verse.

Ha sognato una pantera, occhi neri e denti aguzzi - un Bronwcoat sulle spalle. La fissava dal folto della foresta, appostato nel buio, in attesa di una sua mossa falsa - un accordo e una promessa. Lei non era una volpe molto furba. Non ha avuto nessuno, purtroppo, che le insegnato che non si fanno patti con le pantere - un sentiero lastricato di sabbia e strane intenzioni. Il freddo cipiglio sul muso del felino le faceva arruffare il pelo.

Quando si risveglia di scatto in un letto a lei ormai noto, con qualcuno al fianco - il respiro tranquillo e regolare di chi ha un sonno chimico e non naturale -, si stupisce di non sentire sotto le dita la terra umida, i petali sgualciti dei papaveri, le foglie secche e gli aghi di pino del sottobosco. Ci mette giusto un istante a mettere a fuoco il soffitto candido della camera, nel buio solo di poco rischiarato dallo skyline notturno della capitale di Horyzon allineata fuori dalla finestra.
Silenzio. Respira.
Si accoccola contro la schiena di colui che ancora dorme e chiude di nuovo gli occhi.

lunedì 26 maggio 2014

Behind Blue Eyes.

La chiave nella toppa gratta leggermente verso sinistra quando la inserisce e gira per spingere la porta - barcolla appena, e questa volta non è la tequila.
Solo lo scodinzolare silenzioso di Tallio e i passi felpati di Tac sul pavimento la accolgono in una casa altrimenti vuota - « Vado su New London dai miei. Torno presto. »
Un vago ricordo del suo messaggio le formicola la mente, ancora distratta - stranita incredula - dall'ultimo e casuale incontro nei corridoi dell'Ospedale - non ricordarsi l'appuntamento e trovare tutt'altro.
Uno spettro in vestaglia seduto al bar, il fantasma della bionda e sorridente ragazza che ha conosciuto solo poco tempo prima in un parco - un ritratto e un sorriso, ditate di rosso sotto le lentiggini.
Gli occhi azzurri di Virginie sembravano aver prosciugato ogni traccia di colore dal suo viso - divorato da un terrore che nemmeno lei vuole sentir raccontare.

« Non te lo posso dire. Ma credo che lo verrai a sapere presto. »

Se li è sentiti addosso, brulicanti sulla pelle, e altri due paia le hanno fulminato la mente, nello spazio di un respiro trattenuto e un battito di ciglia.

Gli occhi azzurri di Andres - « Ispida bellezza di St. Andrew. » - che la guardano, tempestosi e preoccupati, nell'odore soffocante di umanità de La Bamba - nei vicoletti di Maracay.
Puttane, piume e papponi.
Il rumore delle percussioni, quella musica così sgraziatamente allegra in sottofondo ad una scena che di allegro non ha assolutamente nulla - i suoi capelli sparsi sul tappeto, il trambusto delle guardie, il dolore alla mano destra.
Gli occhi azzurri di Eddie - i suoi capelli rossi in cui passare le dita - che la fulminano in un ricordo sbiadito, prima che prendesse a pugni Ryan, prima che la piastrina di Nancy tintinnasse ai suoi piedi - assordante almeno quanto le sue stesse parole.
Gli aveva voltato le spalle ed era corsa fuori - ancora una volta - per non leggergli in fondo allo sguardo qualcosa che le avrebbe fatto troppo male.
Troppo, per chi ha semplicemente eseguito degli ordini.

In quell'istante in cui ha spezzato l'equilibrio - lei urla lui resta impassibile -, c'era un sentimento così intenso nei suoi occhi che l'è parso leggerle dentro capitoli di anima che lei non riusciva nemmeno a individuare, intere frasi scritte dalla sua mente, cancellate con mano ferma per non doverle riscoprire un giorno, per caso.
Era tornata perché stare lontana da lui, semplicemente, non riusciva a farlo - a costo di sentirsi la sua rabbia addosso.

« Usa quella cazzo di chiave, Jordan. »

Raggiunge la camera da letto tormentata da questi pensieri, forse per dormire, forse perché ha finito la superficie calpestabile e deve ricominciare da capo.
Sulla sedia alla scrivania, una camicia azzurra - E.B.S. sotto il taschino -, una felpa, tracce di qualcuno che è partito lasciandosi dietro una tranquilla quotidianità, di cui lei ha ricominciato da poco a far parte.
Il polpastrello traccia distrattamente le lettere ricamate sulla stoffa - allineare caramelle sulla mano di Virginie, quasi volesse aggiustarla. Pensa al candido palmo della reporter - mappe indiscrete dei sentieri di una parte dell'anima che doveva restare inesplorata da tutti.
La vecchia di Tartagal che le ha letto la mano anni fa - « Spirito feroce dagli occhi verdi. » - lo sapeva bene, quando le ha bisbigliato all'orecchio il suo futuro. Sapeva che certe strade, anche a conoscerle in anticipo, sono troppo tortuose, troppo difficili da percorrere.
Le labbra della donna sulle sue nocche, la sua silenziosa gratitudine - un passato a Baton Rouge che non racconta mai a nessuno.
Il turbamento di lei all'arrivo di Lars, che sembrava sapere qualcosa riguardo ciò che l'è successo - nuvole torbide dietro i suoi occhi azzurri.
In un impeto istintivo, recupera il suo blocco e inizia a disegnare - grafite su carta ruvida, dita macchiate di polvere grigia.
Disegna ciò che ricorda, disegna ciò che ha visto, disegna ciò che ha sentito a fuoco sulla pelle.
Finirà alle prime luci dell'alba, foglio dopo foglio, finché non sarà soddisfatta.
Eddie, al suo ritorno quel mattino stesso, troverà Jordan appisolata sul tappeto del salotto, circondata da fogli strappati e l'armadio completamente sottosopra, come se qualcuno avesse dormito lì dentro.

mercoledì 7 maggio 2014

Deep in the back of her mind.

Jordan chiude gli occhi e improvvisamente è di nuovo bambina.
Ha undici anni, un vestitino blu e le ginocchia sbucciate. E' la festa di Thyatira, le barche dei pescatori escono in processione, una dopo l'altra, sul vasto mare buio punteggiato dalla luce delle lanterne di carta. Quando sono al largo, guarda le luci librarsi leggere nell'aria fresca di una sera d'estate, un ringraziamento vecchio come il 'Verse ai primi Coloni, quelli sbarcati su Whitmon dopo il Terraforming, quelli che hanno cominciato a spargere casette come sassolini sulla terra brulla di quell'isoletta.
Nik, il solito Nik, l'ha spinta giù dai gradini lastricati che dalla piazza principale si tuffano per i vicoletti del paesino fino al molo di legno, unico porto dell'isola; l'ha spinta per arrivare primo, e solo Thomas si è guardato alle spalle per controllare che non si fosse fatta troppo male. Thomas dagli occhi blu e i capelli neri, Thomas che la chiama per nome e alza le spalle ai suoi capelli corti - « Non stai male, comunque. ».
Una zazzera bionda e spettinata - gli scherzi di Elija, le risate e una gomma da masticare impigliata tra le ciocche color miele - che si era tagliata da sola, senza nemmeno guardarsi allo specchio.
Jordan osserva le lanterne finché non sono sparite nella manciata di stelle sparse sul cielo, velluto blu scuro, prima di far scivolare apparentemente distratta gli occhi verdi nella folla gremita sul molo di legno - sua madre in un angolo flirta con uno sconosciuto che non la guarda nemmeno -, cercando la sagoma di Tom, da qualche parte. Forse è molto più interessante lui, rispetto alle lanterne.

Jordan chiude gli occhi e improvvisamente è di nuovo ragazzina.
Ha diciassette anni, i capelli rosa e le braccia traforate di buchi. Switch fino a perdere i soldi - il senno il rispetto il controllo. La dignità, quella l'ha già smarrita da qualche parte quando ha accettato di far marchette per Tulio - « Sono per tutti e due, chica, per tutti e due. » -, che si mangia ogni soldo che lei riesce a tirare su scopando con chi decide che vale qualche pesos, al Sangre Amaro in quel di Tartagal.
E' ferma in un vicolo, la schiena nuda contro il muro di lamiera di una delle baracche, le mani strette contro il seno acerbo, il tessuto di una canottiera che una volta aveva tutta la stoffa al punto giusto - non tutti quelli che la pagano sono gentili. Ha uno zigomo pesto - le donne le trattano a ceffoni, al Sangre Amaro - e le banconote stropicciate infilate tra le dita, quasi qualcuno dovesse strappargliele di dosso. Sta cercando di riprendere fiato - inspira espira ispira espira - per andarsene a casa. Non prima di essersi infilata qualche soldo nelle scarpe, dove Tulio non guarda mai. Se per comprarsi altra Switch senza di lui o per farci altro, non è dato sapere.

Jordan chiude gli occhi e improvvisamente è di nuovo ragazza.
Ha ventun'anni, un collare al collo e tanta paura. E' sdraiata su un letto di pellicce, circondata da tre donne anziane che parlano un dialetto stretto di St. Andrew, qualcosa pieno di consonanti e dalle vocali particolarmente aperte. Le piazzano in mano una ciotola di legno colma una bevanda bianca, piuttosto pastosa e dal profumo di latte - « Latte di Luna. » -, ordinandole di berla tutta, fino all'ultima goccia. Farà morire il bambino, riesce a capire a stento, mentre una delle donne le piazza una mano sulla pancia ancora piatta e strofina un paio di volte, recitando una preghiera a lei sconosciuta.
Non è del tutto sicura di volerlo fare, di voler tagliare via quel qualcosa che il suo padrone - Ebwar - le ha piantato nel ventre. Non ha mai riflettuto sulla questione, sull'avere un bambino.
Non lo voglio un bastardo come me.
Svuota la ciotola in un paio di sorsi, storcendo la bocca per l'amaro che le gratta la lingua. Si beve svelta ogni rimpianto di cancellare una vita, spalleggiata dall'egoistica rassicurazione che, comunque, il liberarsi del bambino era un ordine diretto dell'Orso suo Padrone. E per una schiava, questo è già abbastanza.

Jordan chiude gli occhi e improvvisamente è di nuovo lei.
Ha venticinque anni, la pelle dorata dal sole e un lampadario di conchiglie sospeso sul soffitto. Le labbra di Eddie sulla spina dorsale - schiena intrecciata di cicatrici e lentiggini - sgranano le vertebre come grani di un rosario, e le preghiere sono le fusa che sta facendo lei - capelli arruffati e profumati delle lenzuola di lino. La conchiglia bianca che gli ha regalato penzola da un cordino di cuoio, solleticandole la pelle nuda. Whitmon è un angolo di paradiso, lontano da tutti e da tutto quanto anche se solo per una settimana - troppo poco per la pace, troppo senza risposte al suo cortex.
Il silenzio di Lars Wolfwood è l'unica cosa che incrina la sua serenità, ma la bocca del medico che l'è sdraiato addosso torna a reclamare la sua più completa attenzione. C'erano state volte in cui si erano strappati gli abiti di dosso come se fossero stati imbevuti di acido corrosivo e volte in cui non erano nemmeno arrivati a spogliarsi; volte in cui il sesso era stato come un regolamento di conti, la richiesta di una resa - « Non te ne andare. »; c'erano state volte - molte volte - in cui lui le aveva ceduto il controllo, imposto con la tenerezza e la passione, e volte in cui aveva combattuto e la gioia era stata identica sia nella sconfitta che nella vittoria.
Quella particolare mattina, tuttavia, è ben lieta di arrendersi subito e baciargli sulle labbra l'ultimo respiro.

Jordan riapre gli occhi e ciò che vede davanti a sé è la parete screpolata di una cella dei sotterranei di Hall Point.
E' seduta per terra, ha la nuca spalmata contro il muro che confina con la cella di fianco, il naso rotto e una costola incrinata. La canottiera blu stinta ha il bavero macchiato di sangue rappreso che l'ennesima testata di Marshall Lee ha deciso di regalarle.
Tende stancamente una mano verso le sbarre - tintinna un braccialetto d'argento al polso sinistro -, senza volerci davvero arrivare. Lancia una tazza, invece, per far rimbombare metallo contro metallo e svegliare l'occupante della "stanza" accanto - acqua che avrebbe dovuto bere finisce sul pavimento.

« Sveglia Lee, brutto cazzone, dormi da morto. »

Per lo meno, questa volta ha qualcuno con cui parlare. O a cui dare fastidio.

mercoledì 30 aprile 2014

Bones.

Chernenko.
In bocca a Jordan, l'aspro suono che dovrebbe avere quel cognome - figlia di Koroleva - suona molto più dolce, una sinfonia di vocali nel silenzio del Tempio di Hanshan.
Grani di ematite sgranati tra dita sottili, grilli e preghiere nel giardino silenzioso.
Il capriccio di strapparle quella mala di dosso e portarsela via, un guizzo dispettoso per uno sfizio casuale - il prezzo di volere qualcosa e non avere filtri, e il Rosso ne sa qualcosa.
Glissare negare non parlare.
L'ossario che secondo Elian nasconde Lars Wolfwood comprende di sicuro meno scheletri di quello della schiava - gli occhi di bronzo dei Buddha nella Sala dei Re Celesti la fissano senza vederla.
Jordan Fox non si sottrae al giudizio di nessuno, ma non sopporta quello della reporter che le sta davanti scalza e le impedisce di estrarre una pistola con la sua arma migliore: la lingua - parlantina che lei non avrà mai, da qua ad un milione di anni.
La tentazione - selvatica e predatoria - di seguirla fino a ovunque abiti per avere quel braccialetto.
Elian Chernenko crede di sapere chi sia il suo padrone - quella che mette insieme i pezzi -, ma anche se è certa di essere ad un passo dalla verità, nessuno può sapere davvero chi sia. Nessuno.
Guardare negli occhi di Wolf è fissare a lungo nel buio e attendere pazientemente una qualunque scintilla.
E lei, in numerosi sospiri, l'ha vista.


« Puoi mettere insieme tutti i pezzi che vuoi, farti tutte le ipotesi di questo 'Verse e affondarci fino al gomito in qualunque storia tu stia cercando, dolcezza. Si dice che chi alza troppo la testa dove non dovrebbe, rischia di vedersela tagliata via. »

« Se cadranno delle teste, Layla, di sicuro non sarà la mia. »