mercoledì 15 aprile 2015

It's lust at first sight.

Richleaf, Maracay - Tartagal, 2507


Erano stati passi distratti a portarla lì, senza che davvero sapesse dove la stessero conducendo. Si era tinta i capelli biondi nel bagno dello spazioporto di Sieg, prima di partire, e l'unico colore che costava sufficientemente poco da poterselo permettere con i pochi spiccioli che aveva in tasca era il rosa. Il fugace lampo dello sguardo di disapprovazione della madre le sfarfallò in mente, svelto come il ragazzino che le era sfilato al fianco sfilandole ciò che rimaneva dei soldi.
Jordan Fox, nel guardarsi attorno terrorizzata ma affascinata, mostrava tutta l'ingenuità di chi è cresciuto su un'isola e non crede sia possibile trovare così tante persone ammassate in un luogo.
Maracay sembrava un gigantesco formicaio, brulicante di vita e passanti frettolosi - ben lontani dall'operosità dell'insetto cui si ispirava. Tartagal, uno spicchio di quell'arancia sanguigna, era un calderone di odori e voci, un budello di viottole sterrate, un labirinto in cui era fin troppo facile smarrire se stessi.
E al momento, con i suoi capelli color caramella e la sacca sulla spalla, dopo aver passato fin troppo tempo sdraiata sul pavimento della stazione degli autobus, lei era tutt'altro consapevole di cosa ci facesse in quel posto.
Mento alzato ad osservare, sconfitta ed esausta, l'insegna traballante di una bettola come tante, illuminata fiocamente dalla luce aranciata proveniente dall'interno del locale.
Entrarci e farsi largo a gomitate verso il bancone, incespicando in decine di sconosciuti ubriachi, fu solo questione di scelte - e di sete.

- Que tomo?

La lingua la colse alla sprovvista, liscia come seta ma sporca della stessa polvere rossastra che le aveva imbrattato le scarpe, fin lì. Non riuscì a rispondere nulla di concreto e rimase lì, per qualche secondo buono, a boccheggiare come un pesce rosso senz'acqua, le nocche strette al bordo del bancone - aggrappata all'unica cosa che non pare girarle sotto i piedi.
Il tonfo di qualcuno che si schianta contro il legno lercio del bancone, al suo fianco sinistro, la fece sobbalzare come un animaletto selvatico, spaventata.
Era un ragazzo poco di grande di lei, dagli arruffati capelli biondi e dal sorriso furioso - crudo, come la risata estasiata che gli sgorgò dalle labbra poco dopo, mentre si massaggiava una guancia su cui spiccava il segno rosso delle cinque dita.
Jordan, seguendo la direzione del suo riso, trascinò uno sguardo titubante a seguire la schiena di una bruna piuttosto procace sparire, inghiottita nella folla che si dimenava al ritmo di una musica indiavolata.
Fu il formicolio di un paio di occhi fissi su di lei a farle torcere nuovamente il collo per incontrare lo sguardo del ragazzo spintonato contro il bancone; una morsa le serrò lo stomaco, inchiodata da un paio di occhi blu, lucidi di curiosità e di qualcos'altro, probabilmente - alcol, switch, all'epoca non sapeva ancora nulla di come girava il 'Verse.

- Ehi chica.

Di nuovo quella lingua. La sua ordinazione era un ricordo ormai lontano, accantonato in un angolo remoto del cervello, soppiantato bruscamente dal bisogno di ossigeno.
Non si era neanche accorta di aver smesso di respirare.

- Non parli maraqueño, anh?

L'inglese di quel giovanotto era stentato, gonfio di consonanti, deliziosamente strafottente come quel sorriso che sembrava inciso direttamente contro la sua bocca.
Jordan scosse il capo un paio di volte, scrollando le lunghe ciocche rosa e facendolo ridacchiare nuovamente.

- Vale, cos'è che vuoi?

Chiederle l'età non sembrava neanche nei suoi programmi e una parte di lei si complimentò silenziosamente con se stessa, per l'ottimo lavoro fatto in quel travestimento. Foxie era rimasta sulla spiaggia di Thyatira ad aspettare il traghetto per Sieg, c'era solo Jordan in quel momento.
In quel posto, in quell'istante.

- Scegli tu.

Non voleva essere civettuola, ma a giudicare dall'occhiata che il ragazzo le spinse addosso, da capo a piedi fino ad arrampicarsi nuovamente verso l'alto, qualcosa nel suo accento musicale gli aveva suggerito tutt'altro.

- Tequila.

Ordinò lui, senza neanche guardare il barista ma alzando una mano con la spavalderia di chi, in quel posto, ci ha passato anche fin troppo tempo. Anche Jordan non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, quasi fosse magnetico. Era bello in un modo che faceva quasi male, e il paio di nei sul collo, i segni rossi vicini allo scollo stazzonato della maglia bianca - oscenamente consunta - le facevano venire in mente pensieri molto meno innocenti di quelle uscite in barca con Thomas.

- Com'è che ti chiami?

Nuovamente, raschiò un respiro dal fondo della gola, concedendo ai polmoni la tregua di riprendere a respirare normalmente - fumo dolciastro polvere e sudore.

- Jordan.

Lui sogghignò, un guizzo in fondo agli occhi blu - un'onda in quel mare liquido, in cui la pupilla era una barca smarrita in tempesta.

- Io sono Tulio. E se non sei ubriaca .. - le tese lo shot di tequila appena arrivato, raso fino all'orlo - .. sei nel posto sbagliato.

E fu in quel momento, quando il primo shot di tequila le ustionò la gola e la coscienza, che Jordan Fox sentì di essere esattamente dove doveva essere.


martedì 7 aprile 2015

Slow dancing in a burning room.

Roanoke, Carcere di Takoma Springs, 2517


Il rancio sa di segatura e carta vetrata.
Ha lo stesso sapore del mastice che usava il vecchio di Whitmon, della casetta sul molo - aggrappata con tenacia alle assi da anni di salsedine e chiodi - per riparare le crepe della sua barca, della nafta che consumava Raphael per la sua imbarcazione, lo stesso dei baci di Tulio che impastavano la bocca quando la switch era troppa e le masticava il cervello, sciogliendo le articolazioni come burro.
Ogni boccone è un groppo in gola, un mattone di saliva, la stessa angoscia che le rivolta lo stomaco - o forse è solo il fegato, aperto dai perforanti di Russell. Ha i brividi, ma arde di febbre.
Nella jungla di Goldera, l'umidità si attacca alle ossa, si intrufola nei polmoni ad ogni respiro come una cappa di velluto bagnato. Il sudore si aggrappa alla carne come i sospiri di un amante - il sapore di Sid le gratta la lingua ad ogni morso, la sua espressione incredula quando ha abbattuto quella bestia. Ha sparato al cane con la stessa, cieca determinazione di colui che - ormai troppi anni fa - ha sfondato le budella a Tulio con un colpo di shotgun ben preciso, per cercargli dentro le viscere i soldi che gli doveva. Come quel cacciatore di St. Andrew, che ha centrato l'alce direttamente in mezzo agli occhi, dipingendo il candore della neve perenne con schizzi di rosso - porpora carminio scarlatto amaranto vinaccia. Come i capelli di Sharon, una pennellata di corallo sulla tela dei suoi ricordi, sul muro della cella - un mattone sbeccato, ruggine e argilla per inchiostro.
Ha disegnato una galassia di ricordi - di sogni di paure di persone - su quelle pareti, sporcandosi le dita e vomitando bile nel secchio di latta che l'è stato concesso. E' solo il fegato, si ripete; è solo il fegato, non l'essere lasciata sola con se stessa, in silenzio, con tutto ciò che ha fatto.
Jordan pensa e ripensa - attorciglia riflessioni come nastri colorati sotto la brezza.
Sogna i suoi vecchi padroni, uno per uno, amore dopo amore. Sogna un soffitto fatto d'acqua che non smette di gocciolarle addosso, un pavimento che non la pianta di rollare come la barca gialla dal bordo scheggiato e l'odore di pesce. Thomas - finalmente - ha smesso di nascondersi dietro un sorriso accennato, dietro il silenzio, dietro le malelingue degli amici a cui si accompagna. Le ha respirato addosso un'infatuazione adolescenziale - frettolosa impacciata ma dolcissima - sulla pelle, tra i capelli, sotto la gonna. Le ha respirato addosso tutta la lussuria che ha tenuto nascosta dietro le frecciatine di Elija, da quando ha capito che gli occhi rabbiosi di Foxie sapevano anche essere gentili. A volte.
Jordan non lo fa più, non chiede più permesso alla società - a se stessa - se vuole qualcosa; se lo vuole, quel qualcosa o quel qualcuno se lo prende, senza badare alle macerie che si lascia dietro, la sfrontata sfacciataggine di chi è cresciuto come un'erbaccia, contorta e mal voluta, e si è ritagliata il suo posto nel 'Verse in un angolo che le era precluso già di nascita.
Ha finito il verde - per Goldera, per tutti gli occhi in cui si è specchiata - quando ha consumato tutto il sasso bianco - non ha altri colori - che le ha lanciato la sua vicina di cella, una ranchera che hanno arrestato perché l'hanno trovata strafatta di blast, con le tasche gonfie delle bustine che lei stessa - non ricorda neanche quando - le ha venduto. Ha riconosciuto i suoi capelli biondi, forse, o magari il pessimo carattere con cui le ha ringhiato attraverso le sbarre di smettere di fissarla o le avrebbe spaccato il naso.
L'è rimasto solo il rosso - quello che lei utilizza come tale.
Sogna, disegna quella stessa cella in fiamme, e lei che ci balla esattamente in mezzo, stentati passi di danza, incespica nei suoi stessi scarabocchi.
Ha passato tutta la sua vita, fino a quel momento, a ballare - entusiasta e sconsiderata come una bambina - in una stanza che va a fuoco, senza preoccuparsi di uscirne, senza preoccuparsi di cosa sarebbe rimasto attorno a lei una volta che l'incendio avrebbe divorato tutto quanto. Compresa lei.
Ma la porta, per quanto la riguarda, è già crollata nel fuoco alla prima scintilla.
Sarebbe arsa, infine, e sarebbe stato sufficiente.





You try to hit me just to hurt me
So you leave me feeling dirty
Because you can't understand.